BEN PASTOR

BEN PASTOR

Tra giallo e storia

quando il genere diventa letteratura

Nei suoi romanzi polizieschi pubblicati da Sellerio – dove  storia e  memoria sono centrali –  mondo militare e mondo accademico si fondono in un mélange raffinato e intrigante.

Italiana ma naturalizzata americana, Ben Pastor, nome d’arte di Maria Verbena Volpi, secondo la sintetica ma densa biografia del suo sito anche nella vita ha scelto  di “dimorare sull'intrigante margine fra culture”. È la sua personale twilight zone, quella terra di confine dove  “come persona, scrittrice e studiosa preferisco passeggiare”.

  1. Si è definita una “accademica prestata al giallo che ha trovato nella scrittura una seconda vita”; come si è affacciata al mondo della narrativa e perché ha scelto il genere crime?

Buone domande. Sono sempre stata dell’idea che in qualunque professione si debba sempre idealmente tenere un piede fuori dalla porta: questo aiuta a conservare il giusto distacco e a non lasciarsi avvitare dal sistema. È anche il motivo per cui ho deciso di farmi un piccolo piercing alla narice quando ho cominciato a lavorare in un’università militare negli USA! Sono una lettrice da sempre, e mia madre scriveva racconti. In casa abbondavano libri e manoscritti, fra cui – seppure in minoranza – anche i romanzi di detection, dai classici del genere agli indimenticabili Gialli Mondadori. Mi interessava il modo in cui nel mystery la scrittura può diventare una sofisticata forma di enigmistica, di problem solving. E infatti sono anche appassionata di rebus e di cruciverba crittografati.

  1. Da dove trae lo spunto per i suoi romanzi?

Diciamo che devo sempre tenere a mente tre elementi del genere in cui lavoro: quello storico, quello poliziesco e quello psicologico. Questo vuol dire che di volta in volta devo trovare un contesto storico, un incidente, un evento intorno al quale tessere la trama storica. Uso soprattutto fonti primarie, ma a volte sono utili anche riviste d’epoca e raccolte fotografiche. Per la parte poliziesca, mi informo sulle leggi vigenti all’epoca, sulle metodologie investigative, e sui “grandi casi” di allora. Per La notte delle stelle cadenti avevo davanti agli occhi il vero caso dell’Assassino della Metro di Berlino e l’omicidio (irrisolto) di Hanussen, il cosiddetto “mago di Hitler”. L’elemento psicologico deve essere ricostruito attraverso la lettura di missive private, diari, articoli, e quant’altro possa rendere l’idea della temperie psicologica dell’epoca. Tutto questo è attenuato nella serie di romanzi ambientati nel IV secolo dopo Cristo, per i quali le fonti di ispirazione sono la storia e la letteratura antica.

 

3. Ha osato molto - e ha vinto la scommessa - scegliendo come protagonista di una serie un ufficiale dell’esercito tedesco collaboratore dei servizi segreti, uno di quelli che di solito vengono definiti ‘mostri’. Eppure Martin Bora ha conquistato subito il grande pubblico, probabilmente anche grazie alla sua dicotomia interiore tra il dissenso nei confronti di alcune scelte del suo governo e l’amore per la patria. Secondo lei, qual è il segreto per far diventare un potenziale antagonista un grande protagonista?

Si sa, a tutti piacciono i “cattivi ragazzi”, non fosse altro perché incarnano una dose di ribellismo, indipendenza ed eccentricità che spesso latita nella “brave persone” integrate. Dal mio punto di vista (e sospetto che molti saranno d’accordo con me), trovo che ne I promessi sposi il personaggio di Don Rodrigo sia assai più interessante di quello di Renzo Tramaglino, il che la dice lunga. Nel costruire un personaggio come Martin Bora hanno contribuito, credo, parecchie cose, a partire dalla classica (per quanto riduttiva) iconografia dell’esercito tedesco durante la Seconda guerra mondiale. Si trattava di mantenere la seduzione di elementi forti quali le armi, l’uniforme, la disciplina kantiana, e di combinarle con la dirittura morale e l’opposizione fattiva per quanto silente a un regime feroce; due elementi che per fortuna possono incontrarsi in qualunque contesto ideologico e in qualsiasi epoca storica. Per molti versi, Bora avrebbe potuto essere un ufficiale dell’Armata Rossa sotto il regime staliniano; l’essenza interiore del personaggio, i suoi dilemmi, i suoi conflitti sarebbero rimasti gli stessi, a prescindere dal diverso contesto culturale e linguistico. Inoltre, capita a tutti noi di dibatterci fra grandi e piccole scelte nella vita: i dilemmi etici di Martin Bora, proiettati sia nel pubblico che nel privato, e la sua cognizione del dolore sono in qualche modo anche i nostri.

 

  1. Che cosa l’ha spinta a scegliere di ambientare la serie in un periodo così drammatico come quello della seconda Guerra Mondiale?

La mia è la generazione nata nel dopoguerra. Il ricordo delle sofferenze di milioni di esseri umani, i segni della distruzione ancora evidenti sul territorio, e il fervore della ricostruzione hanno segnato la mia infanzia. Non è vero che ci siamo lasciati il Novecento alle spalle. Nonostante talune analisi molto superficiali sostengano il contrario, il nostro mondo è in gran parte ancora quello che il Secondo conflitto mondiale ci ha lasciato in eredità. La confusione ideologica e lo scoramento così evidenti oggi, anche prima e senza il covid-19, possono forse essere spiegati, se non curati, da una lettura la più possibile attenta degli eventi che hanno formato (e deformato) il contesto in cui ci muoviamo. Inoltre, quando le circostanze sono di per sé altamente drammatiche, ambientare la risoluzione di un crimine al loro interno può solo aumentare l’impatto di ciò che si racconta.

 

  1. Nel suo sito la frase di apertura della biografia è: “Scrivo di soldati”. Da cosa nasce questa esigenza?

Che dire? A parte i fattori esistenziali (mio nonno e mio padre furono ufficiali medici, rispettivamente nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, ed io ho insegnato per anni al Military College of Vermont/Norwich University, inculcando un po’ di Omero ai futuri marines con risultati spesso sorprendenti), sono convinta che il mestiere delle armi sia spesso giudicato troppo sommariamente. Le freddure del tipo “definizione di un ossimoro: Genio Militare” negano la realtà di un mondo complesso come quello delle forze armate. Grandi intellettuali furono soldati in gioventù: Miguel de Cervantes, Giuseppe Ungaretti, Emilio Lussu, Flavio Giuseppe, perfino Ignazio di Loyola. Forse mi interessa raccontare di coloro le cui stesse vite sono in funzione del rischio di morte. Senza ignorare le atrocità commesse dagli eserciti in tutti i luoghi e tutti i tempi, sfido chiunque a leggere Il porto sepolto di Ungaretti e poi negare che dentro l’uniforme possano anche trovarsi grandi anime ed intelletti.

 

  1. Con l’ultimo libro - La grande caccia - torna, dopo svariati anni, uno dei suoi grandi personaggi seriali, Elio Sparziano, storico e soldato romano del 300 d.C., ispirato a una figura realmente esistita di cui si sa molto poco. Nei suoi romanzi Sparziano è diventato anche un alto ufficiale dell’esercito imperiale che indaga su misteri irrisolti del passato. Vuole parlarci di questo nuovo episodio del ciclo ambientato in Palestina?

Tutti amano la caccia al tesoro. Di volta in volta il tesoro può essere una scoperta scientifica, un montepremi, l’amore di una vita, la grande Balena Bianca. Come osservò acutamente Leopardi ne “Il sabato del villaggio”, la vigilia della festa è ancora più amabile e carica di gioia del giorno che segue. Ho deciso di ambientare La grande caccia in Palestina – terra tuttora combattuta, in cui i conflitti religiosi e le sassaiole contro i soldati sono realtà quotidiane come lo erano 1700 anni fa – proprio perché è un luogo di eterna attesa: da una parte quella del Messia e della ricostruzione del Tempio, e dall’altra quella di un’agognata autodeterminazione nazionale. Sparziano, soldato e storico, ligio ai comandi imperiali ma capacissimo di criticare il sistema, si trova ad inseguire le tracce di un misterioso tesoro vecchio di secoli, nato per finanziare l’invasione siriana della Giudea per poi diventare bottino di guerra dei combattenti Maccabei. Tra omicidi e colpi di scena, in realtà la storia parla di un’ossessione che il protagonista non condivide: quella per l’oro, e di tutto ciò che l’oro può comprare. Come investigatore, Sparziano cerca le ricchezze scomparse per il suo Imperatore; come uomo, è un seguace ante litteram del dettame di H.D. Thoreau: Siamo ricchi in misura delle cose di cui possiamo fare a meno.

 

  1. Il prossimo romanzo sarà un nuovo capitolo della serie di Martin Bora pubblicata da Sellerio, cosa ci può dire in proposito?

Negli Stati Uniti si definisce “canarino da 300 libbre” qualcosa di importante e ingombrante, che è sotto gli occhi di tutti e tutti fingono di non vedere. A modo suo, il canarino in questione nella serie dedicata a Martin Bora è l’epocale battaglia di Stalingrado. È arrivato il momento di parlarne nel dettaglio, e non solo come terrificante esperienza sul Volga, che tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943 costò la vita a centinaia di migliaia di civili e militari di almeno cinque eserciti. Mi interessa soprattutto ambientare un giallo all’interno della multiforme compagine multietnica dell’esercito attaccante. Non a caso, il titolo sarà La sinagoga degli zingari. Tedeschi, Italiani, Ungheresi, Romeni, Cosacchi, vittoriosi fino ad allora e diversissimi fra loro, si trovarono a collaborare in un’impresa tanto disperata quanto sciagurata: la presa di una città industriale che si estendeva sul fiume per oltre 30 chilometri da nord a sud, a più di 3500 chilometri dai rispettivi paesi di origine, e a tre mesi dall’inverno russo.

 

  1. “La disciplina imparata riducendo anziché aggiungendo è sommamente preziosa per il romanziere”: un monito che in particolare chi ha scelto di scrivere gialli dovrebbe sempre tener presente. Si sente di dare qualche consiglio a chi vuole intraprendere la strada del giallo o del noir?

Posso solo parlare per esperienza personale, tenendo a mente che ormai da tempo il genere è affollatissimo. Secondo me, un romanzo non dovrebbe contare una pagina in più del necessario. Questo è tanto più vero se parliamo di un giallo, in cui l’attenzione va mantenuta particolarmente viva. Mi capita a volte, come nella Grande caccia, di avere più cose da dire, ma sempre al servizio della trama e del suo contesto. Avvicinandomi anni fa al mondo della scrittura in generale, ho tenuto presente due moniti: quello di Balzac, quando disse: “Ho scritto un romanzo lungo perché non avevo tempo di scriverne uno breve” (ovvero, non ho avuto il tempo di limarlo a dovere), e quello dei miei insegnanti al Master’s di Scrittura Creativa del Vermont College: “Chiediti sempre perché a qualcuno dovrebbe interessare quello che scrivi”.

 

  1. Sappiamo che è una domanda scontata da fare a una storica, ma quanto ritiene importante documentarsi?

È l’essenza stessa del lavoro di scrittore, nel genere e anche fuori di esso. Quando si consiglia Write what you know, non si invita lo scrittore a limitarsi a descrivere quanto gli è familiare. Piuttosto è un incoraggiamento a documentarsi su quanto ancora non si conosce, per poi scriverne. Nel mio caso, il ventaglio a cui ricorro è assai ampio: fonti primarie, resoconti fotografici, sopralluoghi eseguiti di persona, bollettini e diari di guerra (fra gli ultimi, relativamente a La grande caccia, si conta anche l’impareggiabile Guerra Giudaica di Flavio Giuseppe, che la combatté in prima persona), come pure articoli e romanzi d’epoca, riviste di moda, libri di collezionismo e modellismo, perfino la filatelia e, perché no – nel caso dei romanzi di Bora con ambiente italiano –, le notiziole preziose che si trovano nel Libro di Casa Domus, con le ricette Cirio e Arrigoni…

 

10. Come amalgama storia e fiction?

Per quel che mi concerne, si tratta di conoscere così bene il contesto storico da poter apportare variazioni sul tema con l’introduzione di personaggi inventati ma sempre rigorosamente verosimili. Se, per esempio, Elio Sparziano è esistito come storico delle tarde biografie imperiali, il suo amico-nemico Baruch ben Matthias è un personaggio finzionale. Però corrisponde al tipo di ebreo della Diaspora: cosmopolita, preparato, spregiudicato, ironico, capace di slanci generosi e di astuzie imbattibili. E se la tenutaria egizia Thermuthis, con il suo decalogo della perfetta padrona di bordello, non è esistita con quel nome, certo ci furono donne belle e accorte come lei, e non solo lungo il Nilo. Vige la regola: se non è vero, è ben inventato. Cioè, avrebbe potuto essere vero.

 

11. Inizia un romanzo solo se ha una scaletta ben definita o scrive di getto?

Veramente, il mio approccio è quello del brodo primordiale. Un calderone o un cratere all’interno del quale sobbolle un liquido magmatico di origine talvolta inconscia, dal quale di volta in volta emergono elementi utili al racconto. Di solito comincio con un dialogo, che poi potrà trovarsi a pagina uno come a fine storia. Da questo dialogo, che deve includere il protagonista, capisco qual è il clima psicologico dei personaggi e del contesto. Da lì, derivano le idee che poi cerco di sviluppare in modo organico. Mentre i canovacci mi sono utili, le scalette mi stanno strette. A volte, come nel caso de Il morto in piazza o del prossimo romanzo di Bora, tutto comincia addirittura dal titolo. Cosa significano per me le parole La sinagoga degli zingari? Cosa mi possono suggerire?

 

12. Parte da un personaggio o da una situazione?

Dipende. Scrivendo romanzi che non sono strettamente seriali, dato che le circostanze e perfino i protagonisti consueti cambiano e si sviluppano fra una storia e l’altra, di solito parto con l’esplorare il momento. Come si sente il protagonista questa volta? Qual è il dilemma che gli si presenta, e quali gli ostacoli? Direi che personaggio e situazione sono strettamente legati. Se La grande caccia comincia con un breve sommario del viaggio di Sparziano dalla Britannia alla Siria, La sinagoga degli zingari ha come incipit una pagina del diario di Martin Bora, che si apre con le parole: Sky, clouds. Cielo, nuvole. La Notte delle stelle cadenti inizia con un articolo di giornale tedesco, mentre La canzone del cavaliere porta direttamente al cuore dell’indagine, mostrando il ritrovamento del corpo del poeta Federico Garcia Lorca da parte di Bora nei monti di Spagna. In ogni caso, si deve capire subito quale sarà il tono del romanzo.

 

13. Quando scrive ha in mente un preciso target di lettori?

La mia idea è che chi legge gialli sia di solito una persona curiosa, attenta e piuttosto preparata. Scrivo per questo tipo di essere umano, in cui fra l’altro mi riconosco. Dopo tanti anni di scrittura professionale, continuo ad incontrare fra i miei lettori di vari paesi uomini e donne – in attività o in pensione – col vissuto più vario: magistrati, militari, avvocati, insegnanti, medici, fisici, archeologi, architetti e ingegneri, ma anche attivisti politici, giuristi, studenti, e così via. Un gran bel gruppo di persone che spesso sono diventate mie amiche, e a cui sono assai grata.

 

14. Quanto conta l’ambientazione?

Per me moltissimo. Si tratta di creare un mondo all’interno del quale chi legge possa ambientarsi e vagare a suo piacimento, senza sbagliare strada. Sono affascinata dalle cartine geografiche e dalle fotografie di paesaggi, ma anche dalla cultura materiale e dall’oggettistica. Il mio desiderio è che quel tavolo, quella ciotola, quel pacchetto di sigarette e quel profilo di città o di colline siano veri e accurati. La tenda che in Galilea separa la camera di Sparziano dal povero focolare dove la vecchietta gli sta cucinando il pane per il viaggio, deve vedersi con precisione. E deve rendere condivisibile la sua osservazione: “Dubito che il sole stesso sorgerebbe, se non sentisse le donne muoversi nelle loro cucine…”.

 

15. A suo avviso è importante seminare indizi che permettano al lettore di arrivare da solo alla soluzione?

Interessante. Ogni volta che leggo un romanzo di Simenon con il commissario Maigret, sono talmente presa dalle atmosfere, dagli aromi e dal fascino dei dialoghi secchi ma significativi, che non bado quasi alla trama gialla. Certo è importante distribuire saggiamente indizi e piccole tracce che permettano a chi ama risolvere il crimine di farlo per conto suo. Altrettanto importanti sono le sorprese finali, in cui si rivelano elementi che possono essere sfuggiti anche ai lettori più accorti. Quello che mi piace anche fare è disseminare “chicche” per la strada. Per esempio, avendo usato come traccia narrativa Moby Dick nella Grande caccia, ho chiamato Nepote il capitano della nave Bellatrix, in cerca di un misterioso pesce del Nord. E questo perché in ebraico il nome del capitano di Melville, Achab, vuol dire proprio “nipote”.

 

16. Il colpevole deve essere un personaggio che ha una rilevanza nella storia?

Credo proprio di sì. Ciò non vuol dire che debba essere presente in ogni pagina, perché anche questo tradirebbe l’intento. Personalmente, cerco sempre di dare pari dignità ai personaggi, non importa quanto piccola sia la loro parte o spiacevole il loro comportamento. È come se fossero attori su un palcoscenico, e anche chi fra loro ha un’unica battuta, fosse pure “La cena è servita”, merita la chance di catturare in quel momento l’interesse del pubblico.

 

17. Tre doti che ritiene importanti per uno scrittore di gialli/noir?

A mio modesto avviso, le doti di chi scrive dovrebbero essere sempre le stesse, fuori e dentro il genere. In ordine assolutamente sparso, citerei: inventiva e pensiero originale; ottima conoscenza della lingua e della letteratura; serietà e onestà intellettuale. Se manca una di queste tre qualità, l’immaginario tavolino di quella seduta spiritica che è il lavoro del romanziere non potrebbe battere i colpi necessari ad evocare la storia con tutti i suoi personaggi. Detto questo, è anche utile amare quel che si fa, e sapersi divertire facendolo.