A TU PER TU CON MATTEO GARRONE E CON IL SUO ‘RACCONTO DEI RACCONTI’
«Il mio film non è un fantasy, lo definirei piuttosto un film fiabesco. Il mondo in cui agiscono i personaggi è reale, non fantastico.»
Matteo Garrone, jeans e scarpe da ginnastica, vagamente spaesato nella poltrona di velluto dai braccioli dorati sul piccolo palco della splendida sala Pietro da Cortona della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, ci sorride, aperto e cordiale. Siamo state invitate ad assistere all’ultimo appuntamento de “Il Gioco serio dell’arte” che ci permette di incontrare il regista, appena reduce da Cannes, dove era in concorso con il suo ultimo film, Il racconto dei racconti, tratto dal seicentesco Pentamerone di Giambattista Basile, una raccolta di 50 fiabe napoletane narrate da dieci ‘novellatrici’ in cinque giorni, sul modello del Decamerone di Boccaccio.
«Sì, Goya è stato sempre presente nella preparazione del film» risponde alla suggestione lanciata da Massimiliano Finazzer Flory, mentre sullo schermo scorrono le immagini dei “Capricci” del grande pittore spagnolo, proiezioni fantastiche che ritraggono i vizi umani in una fantasmagoria feroce e barocca. «Ma questo non significa che si tratti di un fantasy, perché attinge a piene mani dalla realtà. Lo so che molti si chiedono come possa aver fatto un film apparentemente così lontano da Gomorra, ma in realtà è nelle mie corde e fa parte del mio percorso, anche se all’inverso: ho cercato di portare nella realtà la dimensione del fiabesco, al contrario di quello che avevo fatto nei miei film precedenti.»
Convince e coinvolge, nella sua semplicità, questo regista che nasce come pittore e che, malgrado la sua sensibilità artistica, ha scelto la gavetta, cominciando come aiuto operatore, per poter padroneggiare al meglio anche i mezzi tecnici.
«Il lavoro del regista è quello di coordinare tutti i reparti, la musica, la scenografia, la fotografia, i costumi, e per farlo bisogna conoscerli, per dargli una direzione unica» dichiara infatti. «Il film è come un mosaico, l’immagine complessiva ce l’avrai solo alla fine del montaggio. Io dico che c’è qualcosa di alchemico, di magico nel cinema, proprio come nelle opere d’arte.»
E questo film vuole essere un omaggio al cinema delle origini - «Per la scena sott’acqua avevo in mente Meliès» -, al cinema che è soprattutto spettacolo, «alle immagini che colpiscono lo spettatore e gli fanno fare un viaggio emotivo prima che intellettuale.»
Cinema di intrattenimento, nel senso più completo del termine. «Intrattenere lo spettatore significa farlo ridere e farlo piangere. Significa dargli più livelli di lettura. Una dimensione di
comico all’interno della quale si sviluppa la tragedia. Questo significava anche restare fedeli all’anima di Basile.»
Scegliere tre racconti su cinquanta non è stato facile.
«Affatto. Io credo che una serie televisiva sarebbe lo sbocco più giusto e naturale del Pentamerone e chissà che un giorno non si possa fare: le fiabe sono universali come i loro archetipi. Il pubblico ci si ritrova, anche perché le immagini sono legate a simboli che fanno parte dell’inconscio collettivo. » Simboli come il labirinto. « Il labirinto è un simbolo per eccellenza. Anche se, devo essere sincero, la sua presenza nel film è nata da una coincidenza. Nel castello di Donnafugata c’è uno splendido labirinto di pietra e allora abbiamo deciso di inserirlo nella sceneggiatura in maniera drammaturgica, non casuale. Le idee a volte nascono interrogando i luoghi.»
La sensazione è quella di un film al femminile…
«E’ così. Le storie che abbiamo scelto raccontano tre donne in tre età diverse della vita. E’ stato fondamentale il coinvolgimento delle attrici, soprattutto perché gli sceneggiatori erano tutti maschi. Era molto importante che le attrici verificassero se quello che era stato scritto coincideva con il loro percorso emotivo. La collaborazione con loro è stata molto importante.»
Il femminile declinato insieme a due tematiche universali: potere e desiderio. «Conducono all’ossessione e quindi sono potenti motori di conflitto. Ci si muove all’interno di un genere, ma esplorandolo in modo non convenzionale, fuori degli schemi. Come accadeva in Gomorra. Nei miei film ho sempre cercato l’imprevedibile. Qui è stato più difficile, visto il tipo di produzione, che mi imbrigliava in certe dinamiche. Ma ho ritrovato tutta la mia libertà nella scena sott’acqua, che non a caso è stata aggiunta a montaggio terminato, perché sentivo che mancava qualcosa. E’ quella più artigianale, meno costruita, dove ho potuto avere la libertà d’improvvisazione che per me è essenziale.»
Colpisce il suo essere umile e diretto. Uno che non se la tira, per capirci. Glielo diciamo.
«Non solo complimenti per il tuo lavoro, il tuo coraggio di sperimentare, di affrontare generi completamente diversi, ma perché quando parli dici sempre ‘noi’, mai ‘io’ .»
Ci guarda stupito.
«E’ normale, un film è un’opera collettiva!» replica convinto.
Ha ragione, ma dove l’autoreferenzialità regna sovrana così normale non è. Una bella lezione di modestia. Chapeau.
«Vuoi rileggere il nostro testo per l’approvazione?»
Ride.
«Ma figurati… siete sceneggiatrici no?»
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